lunedì 17 ottobre 2011

Seventy-Seven

L’immagine, l’unica e più evidente, catturata dalle telecamere, è quella di Dario Franchitti che, a bordo della sua Dallara, piange. Umanamente, in maniera fragile e conscia, per la perdita di un avversario, di un amico. Il driver scozzese, così come tutto il mondo del motorsport lo sà, è conscio della sua continua partita a scacchi con la Signora in Nero. Ma spesso fa finta di nulla, credendosi protagonista del gioco, nascondendosi dietro quella meravigliosa sensazione di adrenalina controllata, di furore ragionato, che fa sentire vivo, e malcelandosi dietro la parola sicurezza.

 La grandezza umana però, nulla può quando il destino, il fato, il caso – fate voi – decide di intervenire, ricordandoci la nostra fragilità. Uno scacco matto che nessuno prevede, e a cui nessuno vorrebbe assistere. Las Vegas doveva essere una festa per la Indycar. La parata finale per una stagione entusiasmante, con in palio il titolo iridato tra Franchitti e Power. Chi corre, vuoi amatorialmente, vuoi in maniera professionale, sa per certo una cosa: quando si è a bordo, o in sella, si ha sempre il controllo dei propri mezzi. Ecco, il controllo. Una sensazione venuta a mancare fin dai primi giri di Las Vegas. Trentaquattro piloti asserragliati, partiti a fionda. O più semplicemente troppo vicini al limite. Un feeling – come si direbbe Oltreoceano – che si percepiva, e che probabilmente veniva accostato al più puro e vitale entusiasmo. Tutti erano contenti di vedere questo last shot, con i protagonisti vicinissimi tra loro, sul filo dei 350 km/h di media.

 Tra questi protagonisti c’era anche Dan Wheldon. L’inglese non aveva un contratto fisso per il 2011. La sua favola, bella e giusta, si era concretizzata in quel di Indianapolis. Lui, con un team messo su per l’occasione dall’amico Brian Herta, aveva centrato una rocambolesca vittoria, raggiunta proprio a 200 metri dal traguardo, quando J.R Hildebrand, pilota del suo ex team Panther, era andato a sbattere.
Il Brickyard aveva regalato le luci del palcoscenico ad un pilota forse dimenticato troppo presto, a quel James Hunt senza contratto. Una vittoria figlia di una giustizia che sembrava avere un tocco divino. Gli dei del motorsport avevano reso giustizia ad un pilota del calibro di Dan. Nessuno aveva invece capito che quella partita a scacchi non si era conclusa, che la Signora in nero aveva riservato uno scacco matto tragico, micidiale e, soprattutto ingiusto per il suo designato giocatore.

L’inglese aveva accettato la scommessa dell’organizzatore: partire ultimo per cercare di vincere. Posta in palio, 5 milioni di dollari. Sul casco, non a caso, Wheldon aveva disegnata una roulette russa. 13 giri, “three in a row” si sente in cuffia da parte dei Crew-Chief, dei capo-meccanici, rivolto ai piloti. Fin troppe volte per una sede stretta come quella di Sin City. La roulette, la giostra, era al limite. E così, è bastato un “semplice” contatto per scatenare l’apocalisse. Quindici vetture coinvolte, polvere, detriti, pezzi di Dallara seminati, e vetture infuocate che piroettano. Beffardamente come il destino, le telecamere della regia stavano proprio riprendendo l’on-board di Wheldon.

Un secondo, una frazione o poco più. Nemmeno il tempo di realizzare cosa stesse accadendo che, l’inquadratura cambia: momenti interminabili, lunghissimi nella loro velocità. La realizzazione che qualcosa di grave fosse accaduto. A partire dal roll-bar della vettura numero 77 inesistente. Scacco matto. La Signora in nero aveva scelto, indiscutibilmente, il suo giocatore. Lo aveva scelto da tempo ed in maniera beffarda. Solo che nessuno se ne era accorto.
Ed è per questo che fa ancora più male ripercorrere le immagini di Wheldon sorridente davanti al trofeo di Indianapolis, con la moglie ed i due figli. Struggente ripensare come noi tutti avevamo utilizzato termini quali “rivincita” “giustizia” e “storia da incorniciare” per il giovane inglese. E’ la severa legge del Motorsport, a cui si cerca di non pensare, o di mascherare con quella imprescindibile sensazione di adrenalina e limite che fa sentire vivo.

E’ la severa legge che proietta nell’immortalità il suo protagonista, lasciando i suoi cari qua, nel mondo dei mortali, a piangere, ed i suoi colleghi, a commemorarlo con cinque, struggenti ed onorevoli giri, per far si che quel sorriso alla James Hunt, rimanga per sempre impresso. Silenzio ora. I giorni delle polemiche e delle analisi arriveranno. Per il momento, lasciamo che siano quei cinque giri ed il suono delle cornamuse a rendere immortale il driver inglese.

Flavio Atzori

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