lunedì 24 ottobre 2011
Come le prime note degli Angeli di Vasco Rossi...
Come le prime note degli Angeli di Vasco Rossi. Calma, stasi, senso di impotenza e dolore. Quel mix di sentimenti che accompagna momenti interminabili, lunghissimi, carichi di ansia, attesa, speranza. Una speranza flebile.
Un film già visto di recente. I twit di chi si trova nella lontana Malesia, mai così vicina. La speranza, la ricerca di una notizia. E gli indizi. Quegli indizi maledetti che ti danno la percezione di quello che sta accadendo. Il tuo cervello lo sà, il tuo cuore non vuole crederci. Nega quello che risulta evidente.
"Race Cancelled" leggi in TV e percepisci dentro che quella sensazione è vera. Un ulteriore deja vu, nella speranza che sia solo pessimismo.
La certezza data dall'ufficialità della notizia. Non che ce ne fosse bisogno. Era bastato vedere i volti dipinti dalle lacrime di quella immensa famiglia che si chiama Motogp. Osservare lo sguardo dell'addetto stampa del team Gresini, ancor prima di ascoltare le sue parole. Notare come Giampiero Sacchi e Carlo Pernat venivano quasi consolati da quella maschera di stoicismo, dolore e coraggio che mostrava Paolo Simoncelli.
Come le prime note degli Angeli di Vasco Rossi. Calma, stasi, senso di impotenza e dolore. Ben visibili negli occhi di papà Paolo, conscio che l'inevitabile sta accadendo proprio al suo Marco. Lo sguardo impietrito, e quella voce che risuona dentro che sà, che solo un miracolo potrebbe risvegliarlo. Come le lacrime della giovane fidanzata Kate, venuta a vedere il suo paladino, ed ora nascosta in un pianto delicato e devastante allo stesso tempo, rubato dall'occhio della cinepresa.
Come le prime note degli Angeli di Vasco Rossi. Calma, stasi, senso di impotenza e dolore. Come le spiegazioni di Valentino Rossi a Loris Capirossi su questo drammatico incidente. Rossi che quasi si giustifica, nei suoi gesti. Quegli stessi gesti fatti con le mani migliaia di volte, e che servivano a spiegare il comportamento della propria moto agli ingegneri, a Sepang raccontavano il dolore, l'imprescindibile, la straziante velocità con cui è accaduto il tutto.
Come quei momenti che sopraggiungono con straziante velocità; quei momenti che prendono l'anima e ti entrano nel cuore, facendoti crollare in un pianto inesorabile, dettato dalla disperazione, dall'impossibilità di poter fare qualcosa di concreto. Come le lacrime di Loris Capirossi. Lacrime amare, di chi ne ha vissute tante, da veterano del gruppo, prossimo alla pensione, ma che ancora non si capacita, di aver perso il fratello più piccolo.
Come le prime note degli Angeli di Vasco Rossi. Calma, stasi, senso di impotenza e dolore. Come l'immagine scolpita di quella tuta bianca, quelle movenze caratteristiche, in sella ad una moto fin troppo piccola. Uno stile cattivo, duro, come sono le 800cc di oggi, ma corretto e leale. Come il suo ultimo, grande, duello in Australia, in bilico con l'asfalto bagnato e con le gomme da asciutto, in una lama di rasoio. Con quella sensibilità nel polso destro accompagnato a quella luce cristallina negli occhi che gli avevano donato un glorioso podio.
Quello stile che la signora in nero ha deciso di portar via. Ma, sia chiaro, solo quello stile, quel modo di correre, quelle movenze. Perchè l'animo, il sorriso, la battuta, i riccioli, la tabella di gara non saranno portati via. Perchè quando si vola, non si può cadere più. Rimarranno vivi, negli occhi di tutti gli appassionati che hanno versato lacrime. Amare, straziate, devastate dall'impresicindible, dal destino e dal fato.
Come le prime note degli Angeli di Vasco Rossi. Calma, stasi, senso di impotenza e dolore. Come gli dei del motociclismo che hanno deciso in maniera incomprensibile, ineluttabile e severa questo destino per un talento di ventiquattro anni, lasciando quel fuoco denso di rabbia, di impotenza e frustrazione ai comuni mortali, che semplicemente non comprendono. Si dice che "muor giovane colui che gli dei amano". Ogni pilota lo sà, quando si infila il casco. La Signora in nero potrebbe cercarti, chiamarti. Ma quel senso di potenza, di vitalità, di concentrazione, quel senso di furore dionisiaco e apollineo, ti fanno dimenticare, nascondere e credere di essere più forte di Lei...
Come le prime note degli Angeli di Vasco Rossi. Calma, stasi, senso di impotenza e dolore. Come il dolore che ha colpito tutti, in maniera totale, indistinta, imperterrita. Come la calma di chi ora, sta sicuramente insegnando in Cielo come si corre in moto a tutte quelle Patacche che ci saranno su due ruote.
Diobò Sic, ora più che mai vai con il Gas a manetta.
Flavio Atzori
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lunedì 17 ottobre 2011
Seventy-Seven
L’immagine, l’unica e più evidente, catturata dalle telecamere, è quella di Dario Franchitti che, a bordo della sua Dallara, piange. Umanamente, in maniera fragile e conscia, per la perdita di un avversario, di un amico.
Il driver scozzese, così come tutto il mondo del motorsport lo sà, è conscio della sua continua partita a scacchi con la Signora in Nero. Ma spesso fa finta di nulla, credendosi protagonista del gioco, nascondendosi dietro quella meravigliosa sensazione di adrenalina controllata, di furore ragionato, che fa sentire vivo, e malcelandosi dietro la parola sicurezza.
La grandezza umana però, nulla può quando il destino, il fato, il caso – fate voi – decide di intervenire, ricordandoci la nostra fragilità. Uno scacco matto che nessuno prevede, e a cui nessuno vorrebbe assistere. Las Vegas doveva essere una festa per la Indycar. La parata finale per una stagione entusiasmante, con in palio il titolo iridato tra Franchitti e Power. Chi corre, vuoi amatorialmente, vuoi in maniera professionale, sa per certo una cosa: quando si è a bordo, o in sella, si ha sempre il controllo dei propri mezzi. Ecco, il controllo. Una sensazione venuta a mancare fin dai primi giri di Las Vegas. Trentaquattro piloti asserragliati, partiti a fionda. O più semplicemente troppo vicini al limite. Un feeling – come si direbbe Oltreoceano – che si percepiva, e che probabilmente veniva accostato al più puro e vitale entusiasmo. Tutti erano contenti di vedere questo last shot, con i protagonisti vicinissimi tra loro, sul filo dei 350 km/h di media.
Tra questi protagonisti c’era anche Dan Wheldon. L’inglese non aveva un contratto fisso per il 2011. La sua favola, bella e giusta, si era concretizzata in quel di Indianapolis. Lui, con un team messo su per l’occasione dall’amico Brian Herta, aveva centrato una rocambolesca vittoria, raggiunta proprio a 200 metri dal traguardo, quando J.R Hildebrand, pilota del suo ex team Panther, era andato a sbattere.
Il Brickyard aveva regalato le luci del palcoscenico ad un pilota forse dimenticato troppo presto, a quel James Hunt senza contratto. Una vittoria figlia di una giustizia che sembrava avere un tocco divino. Gli dei del motorsport avevano reso giustizia ad un pilota del calibro di Dan. Nessuno aveva invece capito che quella partita a scacchi non si era conclusa, che la Signora in nero aveva riservato uno scacco matto tragico, micidiale e, soprattutto ingiusto per il suo designato giocatore.
L’inglese aveva accettato la scommessa dell’organizzatore: partire ultimo per cercare di vincere. Posta in palio, 5 milioni di dollari. Sul casco, non a caso, Wheldon aveva disegnata una roulette russa. 13 giri, “three in a row” si sente in cuffia da parte dei Crew-Chief, dei capo-meccanici, rivolto ai piloti. Fin troppe volte per una sede stretta come quella di Sin City. La roulette, la giostra, era al limite. E così, è bastato un “semplice” contatto per scatenare l’apocalisse. Quindici vetture coinvolte, polvere, detriti, pezzi di Dallara seminati, e vetture infuocate che piroettano. Beffardamente come il destino, le telecamere della regia stavano proprio riprendendo l’on-board di Wheldon.
Un secondo, una frazione o poco più. Nemmeno il tempo di realizzare cosa stesse accadendo che, l’inquadratura cambia: momenti interminabili, lunghissimi nella loro velocità. La realizzazione che qualcosa di grave fosse accaduto. A partire dal roll-bar della vettura numero 77 inesistente. Scacco matto. La Signora in nero aveva scelto, indiscutibilmente, il suo giocatore. Lo aveva scelto da tempo ed in maniera beffarda. Solo che nessuno se ne era accorto.
Ed è per questo che fa ancora più male ripercorrere le immagini di Wheldon sorridente davanti al trofeo di Indianapolis, con la moglie ed i due figli. Struggente ripensare come noi tutti avevamo utilizzato termini quali “rivincita” “giustizia” e “storia da incorniciare” per il giovane inglese. E’ la severa legge del Motorsport, a cui si cerca di non pensare, o di mascherare con quella imprescindibile sensazione di adrenalina e limite che fa sentire vivo.
E’ la severa legge che proietta nell’immortalità il suo protagonista, lasciando i suoi cari qua, nel mondo dei mortali, a piangere, ed i suoi colleghi, a commemorarlo con cinque, struggenti ed onorevoli giri, per far si che quel sorriso alla James Hunt, rimanga per sempre impresso. Silenzio ora. I giorni delle polemiche e delle analisi arriveranno. Per il momento, lasciamo che siano quei cinque giri ed il suono delle cornamuse a rendere immortale il driver inglese.
Flavio Atzori
La grandezza umana però, nulla può quando il destino, il fato, il caso – fate voi – decide di intervenire, ricordandoci la nostra fragilità. Uno scacco matto che nessuno prevede, e a cui nessuno vorrebbe assistere. Las Vegas doveva essere una festa per la Indycar. La parata finale per una stagione entusiasmante, con in palio il titolo iridato tra Franchitti e Power. Chi corre, vuoi amatorialmente, vuoi in maniera professionale, sa per certo una cosa: quando si è a bordo, o in sella, si ha sempre il controllo dei propri mezzi. Ecco, il controllo. Una sensazione venuta a mancare fin dai primi giri di Las Vegas. Trentaquattro piloti asserragliati, partiti a fionda. O più semplicemente troppo vicini al limite. Un feeling – come si direbbe Oltreoceano – che si percepiva, e che probabilmente veniva accostato al più puro e vitale entusiasmo. Tutti erano contenti di vedere questo last shot, con i protagonisti vicinissimi tra loro, sul filo dei 350 km/h di media.
Tra questi protagonisti c’era anche Dan Wheldon. L’inglese non aveva un contratto fisso per il 2011. La sua favola, bella e giusta, si era concretizzata in quel di Indianapolis. Lui, con un team messo su per l’occasione dall’amico Brian Herta, aveva centrato una rocambolesca vittoria, raggiunta proprio a 200 metri dal traguardo, quando J.R Hildebrand, pilota del suo ex team Panther, era andato a sbattere.
Il Brickyard aveva regalato le luci del palcoscenico ad un pilota forse dimenticato troppo presto, a quel James Hunt senza contratto. Una vittoria figlia di una giustizia che sembrava avere un tocco divino. Gli dei del motorsport avevano reso giustizia ad un pilota del calibro di Dan. Nessuno aveva invece capito che quella partita a scacchi non si era conclusa, che la Signora in nero aveva riservato uno scacco matto tragico, micidiale e, soprattutto ingiusto per il suo designato giocatore.
L’inglese aveva accettato la scommessa dell’organizzatore: partire ultimo per cercare di vincere. Posta in palio, 5 milioni di dollari. Sul casco, non a caso, Wheldon aveva disegnata una roulette russa. 13 giri, “three in a row” si sente in cuffia da parte dei Crew-Chief, dei capo-meccanici, rivolto ai piloti. Fin troppe volte per una sede stretta come quella di Sin City. La roulette, la giostra, era al limite. E così, è bastato un “semplice” contatto per scatenare l’apocalisse. Quindici vetture coinvolte, polvere, detriti, pezzi di Dallara seminati, e vetture infuocate che piroettano. Beffardamente come il destino, le telecamere della regia stavano proprio riprendendo l’on-board di Wheldon.
Un secondo, una frazione o poco più. Nemmeno il tempo di realizzare cosa stesse accadendo che, l’inquadratura cambia: momenti interminabili, lunghissimi nella loro velocità. La realizzazione che qualcosa di grave fosse accaduto. A partire dal roll-bar della vettura numero 77 inesistente. Scacco matto. La Signora in nero aveva scelto, indiscutibilmente, il suo giocatore. Lo aveva scelto da tempo ed in maniera beffarda. Solo che nessuno se ne era accorto.
Ed è per questo che fa ancora più male ripercorrere le immagini di Wheldon sorridente davanti al trofeo di Indianapolis, con la moglie ed i due figli. Struggente ripensare come noi tutti avevamo utilizzato termini quali “rivincita” “giustizia” e “storia da incorniciare” per il giovane inglese. E’ la severa legge del Motorsport, a cui si cerca di non pensare, o di mascherare con quella imprescindibile sensazione di adrenalina e limite che fa sentire vivo.
E’ la severa legge che proietta nell’immortalità il suo protagonista, lasciando i suoi cari qua, nel mondo dei mortali, a piangere, ed i suoi colleghi, a commemorarlo con cinque, struggenti ed onorevoli giri, per far si che quel sorriso alla James Hunt, rimanga per sempre impresso. Silenzio ora. I giorni delle polemiche e delle analisi arriveranno. Per il momento, lasciamo che siano quei cinque giri ed il suono delle cornamuse a rendere immortale il driver inglese.
Flavio Atzori
martedì 4 ottobre 2011
Lo strano caso del dott. Lewis e di Mr Hamilton
Che ci sia qualcosa che non va è evidente e, sopratutto, è sotto agli occhi di tutti. Ed è preoccupante.
L'argomento, per gli appassionati veri di Formula 1 è intrigante. Che fine ha fatto Lewis Hamilton? Parliamo di quel pilota capace di conquistare 9 podi consecutivi al suo esordio nel mondiale 2007, mettendo in crisi il campione del mondo in carica Fernando Alonso.
Quella macchina progettata per vincere fin dalla sua infanzia, quando all'età di 10 anni chiese a Ron Dennis, con gli occhi lucidi di un bimbo di "poter correre per la McLaren un giorno". Che fine ha fatto quel pilota veloce, talentuoso, grintoso, tattico? Nel corso degli anni, la carriera di Lewis Hamilton ha vissuto molti alti e bassi, ma la sensazione era sempre la stessa: Lewis Hamilton è cosi, prendere o lasciare. Ma era così nella sua interezza, nella sua imprescindibilità.
Era il pilota coccolato dal team nel 2007, implacabile, invincibile pur se giovanissimo. Sembrava perfetto, tanto era "appropriato" in ogni suo momento. Persino in Cina, subito dopo l'insabbiamento all'entrata box che gli costò - a conti fatti - un titolo mondiale, era stato imperturbabile.
E cosi, ecco la cavalcata del 2008, il calvario e la rinascita del 2009 - più per meriti suoi che della McLaren - condito però dalle prime avvisaglie. La macchina comincia a mostrare segni di cedimento. La macchina è in realtà umana.
Capita in Australia due anni or sono, quando dice il falso in occasione della chiamata dei commissari su una questione con Jarno Trulli. Smascherato, si sente come si sarebbe sentito qualsiasi ragazzo sotto pressione. Si sente vulnerabile, braccato. Ed è per questo che la macchina-Lewis Hamilton arriva ad uno sdoppiamento vero e proprio: da una parte c'è il Dott Lewis, calmo e pacato in ogni sua considerazione; dall'altra c'è Mr Hamilton, il pilota, smanioso di mostrare al mondo la sua grandezza.
Una frustrazione, quella di Mr Hamilton che nel 2010, che lo porterà a commettere due errori fatali a Monza e Singapore, compromettendo il suo cammino verso l'iride. Quel velo di rabbia comincia a intravedersi. Non fuori, ma dentro la pista. L'insofferenza di chi ha il fuoco dentro, di chi si sente tigre in gabbia, di chi sà di avere un dono e non riesce a sfruttarlo al 100%, non per causa propria, ma per manifesta superiorità tecnica degli avversari.
Al Dott Lewis, incredibilmente calmo e pacato fuori dalla pista, si contrappone sempre di più Mr Hamilton, impaziente, nervoso e propenso all'errore. Ed il suo vero essere - per una volta - esce fuori anche durante un'intervista:
Lewis continua a correre a modo suo. Sbaglia, rischia, diverte e fa divertire. E' un'animale in gabbia che mostra la sua classe ogni volta che può. Ma la sua vera natura, in queste situazioni, lo porta ad errori e penalità, ottenute in sequenza in questo 2011. Mr Lewis è una maschera che comincia a decadere pur mantenendosi salda sotto le telecamere. Sotto gli occhi di tutti però, ecco oramai chiara l'identità più selvaggia di Mr Hamilton: Se non sbaglia è un fenomeno puro il driver McLaren. Ma se pecca invece, diventa irritante.
L'ultimo capitolo a Singapore, quando attacca Felipe Massa, lo tocca rovinando la sua ala, la posteriore destra del Ferrarista, e la corsa di entrambi. La frustrazione di Mr Hamilton è tutta nella sua dichiarazione in gara: "Of course I have a drive Trough". Una vera e propria dichiarazione irriverente via radio al suo crew-chief. Poi, come se nulla fosse, durante le interviste dei piloti, ecco prendersi una "sonora" pacca da parte di un Felipe Massa inferocito, senza batter ciglio. Questo è lo strano caso del dott.Lewis e di Mr Hamilton. Di un animale di razza costretto a mettere la più classica delle maschere quando si trova sotto i riflettori di un palcoscenico. Quella stessa maschera che, nel suo habitat naturale, Mr Hamilton oramai non è più in grado di mantenere, rivelando - nel bene e nel male - la sua natura più vera. E, a dirla tutta, l'Hamilton falloso, veloce, grintoso, sbruffone e irriverente e fallace, ma sopratutto umano, piace di più rispetto a quella macchina perfetta, imperturbabile e incredibilmente vincente che fù al suo esordio mondiale.
Quella macchina progettata per vincere fin dalla sua infanzia, quando all'età di 10 anni chiese a Ron Dennis, con gli occhi lucidi di un bimbo di "poter correre per la McLaren un giorno". Che fine ha fatto quel pilota veloce, talentuoso, grintoso, tattico? Nel corso degli anni, la carriera di Lewis Hamilton ha vissuto molti alti e bassi, ma la sensazione era sempre la stessa: Lewis Hamilton è cosi, prendere o lasciare. Ma era così nella sua interezza, nella sua imprescindibilità.
Era il pilota coccolato dal team nel 2007, implacabile, invincibile pur se giovanissimo. Sembrava perfetto, tanto era "appropriato" in ogni suo momento. Persino in Cina, subito dopo l'insabbiamento all'entrata box che gli costò - a conti fatti - un titolo mondiale, era stato imperturbabile.
E cosi, ecco la cavalcata del 2008, il calvario e la rinascita del 2009 - più per meriti suoi che della McLaren - condito però dalle prime avvisaglie. La macchina comincia a mostrare segni di cedimento. La macchina è in realtà umana.
Capita in Australia due anni or sono, quando dice il falso in occasione della chiamata dei commissari su una questione con Jarno Trulli. Smascherato, si sente come si sarebbe sentito qualsiasi ragazzo sotto pressione. Si sente vulnerabile, braccato. Ed è per questo che la macchina-Lewis Hamilton arriva ad uno sdoppiamento vero e proprio: da una parte c'è il Dott Lewis, calmo e pacato in ogni sua considerazione; dall'altra c'è Mr Hamilton, il pilota, smanioso di mostrare al mondo la sua grandezza.
Una frustrazione, quella di Mr Hamilton che nel 2010, che lo porterà a commettere due errori fatali a Monza e Singapore, compromettendo il suo cammino verso l'iride. Quel velo di rabbia comincia a intravedersi. Non fuori, ma dentro la pista. L'insofferenza di chi ha il fuoco dentro, di chi si sente tigre in gabbia, di chi sà di avere un dono e non riesce a sfruttarlo al 100%, non per causa propria, ma per manifesta superiorità tecnica degli avversari.
Al Dott Lewis, incredibilmente calmo e pacato fuori dalla pista, si contrappone sempre di più Mr Hamilton, impaziente, nervoso e propenso all'errore. Ed il suo vero essere - per una volta - esce fuori anche durante un'intervista:
Lewis continua a correre a modo suo. Sbaglia, rischia, diverte e fa divertire. E' un'animale in gabbia che mostra la sua classe ogni volta che può. Ma la sua vera natura, in queste situazioni, lo porta ad errori e penalità, ottenute in sequenza in questo 2011. Mr Lewis è una maschera che comincia a decadere pur mantenendosi salda sotto le telecamere. Sotto gli occhi di tutti però, ecco oramai chiara l'identità più selvaggia di Mr Hamilton: Se non sbaglia è un fenomeno puro il driver McLaren. Ma se pecca invece, diventa irritante.
L'ultimo capitolo a Singapore, quando attacca Felipe Massa, lo tocca rovinando la sua ala, la posteriore destra del Ferrarista, e la corsa di entrambi. La frustrazione di Mr Hamilton è tutta nella sua dichiarazione in gara: "Of course I have a drive Trough". Una vera e propria dichiarazione irriverente via radio al suo crew-chief. Poi, come se nulla fosse, durante le interviste dei piloti, ecco prendersi una "sonora" pacca da parte di un Felipe Massa inferocito, senza batter ciglio. Questo è lo strano caso del dott.Lewis e di Mr Hamilton. Di un animale di razza costretto a mettere la più classica delle maschere quando si trova sotto i riflettori di un palcoscenico. Quella stessa maschera che, nel suo habitat naturale, Mr Hamilton oramai non è più in grado di mantenere, rivelando - nel bene e nel male - la sua natura più vera. E, a dirla tutta, l'Hamilton falloso, veloce, grintoso, sbruffone e irriverente e fallace, ma sopratutto umano, piace di più rispetto a quella macchina perfetta, imperturbabile e incredibilmente vincente che fù al suo esordio mondiale.
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